Narrazioni digitali. Diagnosi di un’immagine mentale

ABSTRACT. In questo papers mettiamo in discussione il racconto ufficiale della rivoluzione digitale. Allo scopo analizziamo i significati contenuti nella sequenza visiva maggiormente utilizzata per interpretare il passaggio da una rivoluzione industriale all’altra. Tale sequenza istruisce il pubblico dei vecchi e nuovi media a un modo di pensare la tecnologia, i suoi effetti sociali e le sue tendenze future. Abbiamo smontato questo modo di pensare per separare la narrazione dalla realtà.

Due svolte per una rivoluzione. Le comunità di pensiero (scientifica, letteraria, mediatica) affrontano l’urto dell’innovazione tecnologica sul presente rispondendo alla domanda: cosa sta accadendo oggi? E strutturano il futuro rispondendo a una seconda, inevitabile domanda: cosa accadrà domani? Dagli anni ’50 del secolo scorso i mondi della cultura, dell’impresa e dei media hanno progressivamente riempito biblioteche e archivi on-line di testi (orali, scritti, visivi) finalizzati a capire gli effetti sociali dell’automazione e a prevederne le tendenze future. Un impegno che aveva e ha ancora oggi ottimi motivi. Eccone due: 1) l’avvento della tecnologia elettronica di tipo digitale ha sconvolto i processi produttivi, contribuito a domare la forza-lavoro e affermato una nuova forma di accumulazione del capitale basata sull’informazione; 2) a partire dagli anni ’90 del XX secolo i proprietari dei vecchi e nuovi mezzi di produzione si sono impossessati dell’idea di rivoluzione spodestando nell’immaginario collettivo i rivoluzionari anticapitalisti ormai politicamente sconfitti. La due svolte, una economica e l’altra comunicativa, hanno avuto un successo travolgente e da alcuni decenni l’etichetta rivoluzione digitale è stata incollata all’insieme dei mutamenti innescati dalla tecnologia. Rivoluzione digitale: ecco la risposta alle angoscianti domande sul presente e sul futuro hi-tech.[1]

Storytelling globale. Corrono gli anni ’70 del ‘900 e il governo statunitense crea de facto la Silicon Valley.[2] Se nella patria del profitto privato l’intervento dello Stato nell’economia fosse diventato di dominio pubblico per i tecno-imprenditori à la Steve Jobs si sarebbe trattato di un catastrofico danno d’immagine. A salvargli la faccia ha contribuito lo storytelling globale[3] che accompagna i processi di automazione da un’ottantina danni a questa parte in un crescendo impressionate. Andando per punti, lo storytelling globale consiste in una permanente campagna di comunicazione planetaria gestita in maniera il più possibile coordinata da governi, Tech Giants, sistema dei media. Una campagna che mitizza i tecno-imprenditori e promuove l’alta frequenza di innovazioni: calcolo quantistico, realtà mediate, nanotecnologie, biotecnologie, auto senza pilota e così via di meraviglia in meraviglia. Infine, una campagna che attua strategie di coinvolgimento del pubblico e dei consumatori facendoli sentire protagonisti della rivoluzione digitale.

Eco figurativa. Per essere ancora più efficace lo storytelling globale è corredato da efficaci rappresentazioni visive. Rappresentazioni che con un semplice colpo d’occhio indicano la best way per interpretare il passaggio da una rivoluzione industriale all’altra. Quella che vediamo nella Figura 1 è la successione temporale culturalmente istituzionalizzata di tale chiave di lettura. Non c’è narrazione delle tecnologie digitali che, in maniera esplicita o implicita, non la contempli. Si tratta di una rappresentazione iconica che costituisce allo stesso tempo un’istruzione visiva per spiegare un processo storico-sociale e un’immagine mentale di impronta chiaramente evolutiva. Un’immagine che: fa da matrice ad altre sequenze dello stesso tipo aggiornate con le ultime novità tecnologiche; gode di largo consenso nelle comunità di pensiero; è implicita nelle strategie di comunicazione delle Big Tech; si stampa facilmente nella mente di chi la osserva. Per tutti questi motivi la Figura 1 potrebbe fare bella mostra di sé in un museo della scienza e della tecnologia. Ma c’è da chiedersi: i significati di cui è portatrice reggono alla critica sociologica?

 

Fig. 1

 

 

 

 

 

Sequenza delle rivoluzioni industriali. Crediti: Christoph Roser su AllAboutLean.com[4]

 Vince chi convince. In senso lato la narrazione può essere intesa come un discorso pubblico trasmesso nell’infosfera da vecchi e nuovi media. Ma la posta in gioco è altissima: organizzare l’esperienza dei riceventi. Perciò anche la più generica definizione di narrazione incontra un ostacolo: solo in teoria è previsto un confronto sullo stesso piano di dignità tra storie divergenti. In pratica le narrazioni che godono di maggior spazio, attenzione e visibilità sulla scena mediatica formano un’ortodossia in grado di battere la concorrenza di storie disallineate. Continuando a prendere prestiti dall’advertising, la narrazione ufficiale sulla rivoluzione digitale è dominante nella stessa maniera in cui il linguaggio della pubblicità domina il racconto della merce. Si può contestare tale racconto finché si vuole – e così è stato dagli anni ’50 del ‘900 fino all’altro ieri – ma alla fine è uscito vincente e deborda in ogni dove: dalla radio a Internet passando per la carta stampata. Sul piano comunicativo tale risultato è sintetizzabile in un semplice slogan: vince chi convince. È necessario aggiungere che non convince chi ha ragione, chi dice la verità, o chi è nel giusto: convince chi detiene il potere mediatico.[5]

Perde chi ha pochi mezzi. Nel corso degli anni ’90 la generazione dei pionieri di Internet ha conosciuto il suo quarto d’ora di celebrità e cantava la Rete come spazio di libertà, democrazia e anarchica creatività. Ci hanno pensato governi e multinazionali hi-tech a riportare l’ordine sommergendo la tecno-utopia dei pionieri con un diluvio di narrazioni focalizzate sull’innovazione permanente. Nel giro di pochi anni il ciberspazio è passato luogo della reciprocità a prateria per il business, per la sorveglianza di massa, per veicolare l’ideologia neoliberista. Come le praterie di un tempo Internet è diventata anche un luogo pieno di insidie e nell’insieme la società on-line ha finito per costituire un doppione di quella off-line (atomizzata, edonista, aggressiva). Sul piano culturale questa come quella è governata dalla coalizione tra i proprietari dei tradizionali strumenti di comunicazione (il cui ruolo è ancora strategico nel generare le forme espressive della cultura di massa)[6] e i grandi gestori di Big Data (i maggiori accumulatori di informazioni sul pubblico-cliente della Rete). Un vantaggio competitivo in grado di battere qualsiasi contronarrazione o addirittura renderla funzionale a un disegno egemonico così come è accaduto coi pionieri di Internet: immaginando di instaurare il regno della gratuità hanno aperto la strada a un nuovo, immenso mercato.

Ipoteca storica. La forza della rivoluzione digitale è data dal sodalizio tra cose e parole. Vale a dire che la rivoluzione digitale è di per sé evidente: la stampa 3D costituisce un dato di fatto così come il robot Sophie e ChatGPT. Ma un dato di fatto è zoppo se non è legittimato da una narrazione destinata a produrre consenso sociale. Se vuole occupare uno spazio culturale la novità dell’oggetto digitale deve cingersi di un’armatura retorica in grado di respingere dubbi, ragioni contrarie, volontà di capire. L’armatura retorica non serve per imporre il silenzio. Ma a incrementare il flusso dei discorsi per trarre nuovi spunti narrativi e a mettere le redini al dibattito pubblico per farlo galoppare nella direzione desiderata: la futura civiltà del silicio. Lo scopo è politico: permettere all’oggetto digitale di proseguire il suo corso: che lo si lasci fare, che lo si lasci raccontare. Incontriamo così un’ipoteca storica della narrazione digitale: l’evoluzione tecnologica è un vantaggio per tutti. Non siamo forse passati dal primo calcolatore elettronico che pesava 30 tonnellate al portatile da meno di un kg? Grazie a Internet delle cose possiamo o non possiamo accendere la caldaia di casa da remoto? E nel prossimo futuro non saranno i robot pets a tenere compagnia agli anziani?

Febbre high-tech. Per l’uso pubblico della storia la rivoluzione digitale è: una rivoluzione industriale caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione tecnologica che provoca un mutamento sociale senza precedenti, sovvertendo i meccanismi di produzione (il modo di lavorare) e di riproduzione (il modo di consumare) dando vita a una new economy e a una new society. Da questa vulgata scaturisce l’immagine mentale che stiamo analizzando così come Venere scaturisce dalla spuma del mare. E sui lucidi corpi artificiali delle meraviglie hi-tech si tessono le più svariate narrazioni. Nella nostra immagine la progressione delle rivoluzioni industriali si ferma alla quarta, genericamente definita “Sistemi cibernetici”. Ma per l’Unione Europea siano già avviati alla quinta.[7] Fase in cui si compie un importante salto di qualità: l’industria 5.0 è insieme il collettore dell’innovazione tecnologica e dell’innovazione sociale. In altre parole, l’impresa privata non ha più bisogno di mascheramenti: prende ufficialmente in mano la riproduzione della società guidando la transizione digitale e quella verde. Nella cronaca giornalistica ci si può imbattere persino nella sesta ondata di innovazioni e probabilmente la graduatoria è destinata a salire come sul termometro salgono i gradi della temperatura corporea in caso di febbre. Con la rivoluzione digitale la febbre aumenta in conseguenza dell’apparizione di fantascientifiche novità tecnologiche e la scoperta di nuove nicchie di mercato. Ad ogni apparizione, ad ogni scoperta lo storytelling globale solleva la temperatura con diluvi di notizie, racconti, profezie.

Storia vs narrazione. Ecco un elenco di eccitanti apparizioni: nel 1946 fa la sua comparsa quello che le la maggioranza degli analisti è il primo computer (Eniac); nel 1947 è presentato il primo transistor; nel 1948 Claude Shannon getta le basi della teoria dell’informazione e nello stesso anno Norbert Wiener conia il termine cibernetica; nel 1949 viene inventato il primo robot industriale (Ultimate) presentato nel 1954, entrato in produzione nel 1961; nel 1958 appare il circuito integrato; nel 1969 vengono collegati i primi due computer della rete Arpanet; nel 1971 viene alla luce il microchip; nel 1972 nasce Internet; nel 1984 la Apple mette sul mercato il personal computer Macintosh; nel 1989 Tim Berners-Lee inventa il World Wide Web al CERN di Ginevra; nel 2004 si afferma il Web 2.0.

Per quanto incompleto questo elenco suggerisce che la rivoluzione digitale ha alle spalle una storia che per durata si avvicina a quella della prima rivoluzione industriale. Una storia che secondo i teorici del transumano si concluderà tra una ventina d’anni quando l’accumulo di innovazioni tecnologiche produrrà una svolta improvvisa e si entrerà nell’era della singolarità tecnologica.[8]  Un’era in cui gli esseri umani potranno aspirare alla vita eterna. Non si sa se tutti o solo alcuni, ma al là di questo dettaglio la narrazione digitale istituzionalizza un nuovo demiurgo: la tecno-scienza. Se progresso c’è è affare dell’impresa privata e nessun’altra forma di emancipazione è consentita, a iniziare dall’emancipazione del lavoro. Nella prospettiva dello storytelling globale l’evoluzione delle macchine prende il posto dell’evoluzione sociale. Perché mai così tanta intransigenza? Per spoliticizzare la tecnologia agli occhi della forza-lavoro e della forza-consumo e per ripoliticizzarla clandestinamente secondo le convenienze degli imprenditori. Perché clandestinamente? Perché la tecnologia si presenta come neutrale, come frutto del puro genio creativo. Perciò avanzare dubbi significa opporsi al progresso, o meglio, all’inevitabile.

Un’idea del tempo. La rivoluzione permanente scatenata dal susseguirsi di oggetti digitali si presenta sulla scena mediatica con un particolare tempo del racconto ben rappresentato da alcuni slogan: Microsoft: «Il futuro è ora»; Toshiba: «Un impegno per le persone, un impegno per il futuro»; Gigaphoton: «Il futuro è oggi»; Olympus Corporation: «La tua visione, il nostro futuro».[9] In questo legame tra l’oggi e il domani il futuro è nel presente e il presente è nelle mani della cooperazione fra produttori di tecno-novità e clienti che le acquistano. La stessa cooperazione è sottintesa nel passaggio dalla macchina a vapore ai sistemi cibernetici come illustrato dalla nostra immagine sulla successione delle rivoluzioni industriali: il passato perde di significato (come è nata la prima rivoluzione industriale?), mentre il futuro risiede nell’avvenire in via di fabbricazione nei tanti cantieri digitali, dalla piccola start-up alle gigantesche multinazionali dell’hi-tech. L’idea del futuro a portata di click gode del vantaggio di un cartello stradale: è facilmente comprensibile da chiunque. Il segreto del suo successo si basa su tre fattori: la necessità degli individui di economizzare risorse mentali per sopravvivere in una società dove il tempo è una risorsa scarsa; la spaventosa retrocessione culturale delle ultime due generazioni di giovani (gli attuali quarantenni e gli attuali ventenni); la mobilitazione collettiva per partecipare alla rivoluzione digitale (come consumatori, come produttori, come narratori).

Mattoni del racconto. “Siamo alla soglia di un avvenire radioso. I lavoratori possono attenderlo con fiducia e non hanno nulla da temere. L’automazione è una chiave magica per la creazione di valori; non è un rozzo strumento di distruzione, e il talento e le capacità di chi lavora avranno il loro compenso anche nel futuro paradiso terrestre … Guidato dagli apparecchi elettronici, sulle ali dell’energia atomica e con l’aiuto dell’automazione, che non costa fatica e corre liscia come l’olio, il tappeto magico della nostra libera economia si solleva in volo verso mai sognati orizzonti. Viaggiare su quel tappeto, sarà la più straordinaria esperienza immaginabile.”[10]

Queste parole sembrano scritte oggi, invece risalgono al 1954. Un tempo in cui nella manifattura statunitense comparvero i primi computer. Nel brano troviamo alcuni dei principali mattoni con cui costruire la narrazione digitale di ieri e di oggi: l’ottimismo nel domani (l’avvenire radioso); l’illimitato credito di fiducia concesso all’innovazione tecnologica (l’automazione non è uno strumento distruttivo); la commistione tra credenza religiosa (il paradiso terrestre) e l’invenzione favolistica (il tappeto magico); l’archetipo del viaggio (il volo verso mai sognati orizzonti); lo spirito d’avventura (l’esperienza straordinaria).

Mito della frontiera 2.0. Bill Gates: “Questo è un momento emozionante dell’età dell’informazione. Tutto comincia ora. Dovunque io vada – a tenere una conferenza o a cena con gli amici – assisto a discussioni su come l’informatica cambierà la nostra vita. Ci si chiede: cambierà in meglio o in peggio? In che senso renderà diverso il futuro? Ho già detto di essere ottimista per carattere, e sono ottimista anche sugli effetti che le nuove tecnologie determineranno: valorizzeranno il tempo libero e arricchiranno la cultura, incrementando la diffusione dell’informazione; aiuteranno a decongestionare il traffico nelle aree urbane, perché ciascuno potrà lavorare a casa o in uffici vicini alla propria abitazione; contribuiranno a un minor consumo delle risorse naturali, perché un numero sempre crescente di prodotti potrà prendere forma di bit anziché di beni materiali; ci consentiranno di esercitare un maggior controllo sulla nostra vita, di fare esperienze che rispondano perfettamente ai nostri interessi. I cittadini della società informatica avranno a loro disposizione possibilità finora sconosciute di inventare nuove attività, studiare e divertirsi. Le nazioni che, collaborando tra loro, prenderanno iniziative coraggiose godranno di grandi benefici economici. Verranno alla luce mercati completamente nuovi, e saranno create infinite opportunità di lavoro.»[11]

Quanto può turbare l’homo digitalis lo sfiorato en plein di previsioni sbagliate contenute in questo lungo elenco? Nulla. Nulla per tre motivi. Primo: perché nella realtà mediatizzata la coerenza non è una virtù (qualcuno ricorda la promessa mai mantenuta di un milione di posti di lavoro grazie alla quale un tycoon dei media salì a Palazzo Chigi?). Secondo motivo: perché le previsioni sbagliate autorizzano dilettanti, imbonitori e incompetenti che pullulano dentro e fuori la Rete a dire la loro sugli effetti sociali della tecnologia fornendo un inesauribile carburante al moto narrativo. Terzo motivo: perché la narrazione digitale si nutre del mito statunitense della frontiera, e la nuova frontiera è il cyberspazio, che per sua natura non ha limiti: superato un confine eccone apparire un altro e così via all’infinito.

 Previsione narrativa. La narrazione digitale è incurante delle previsioni sbagliate sugli effetti sociali della tecnologia proprio perché si afferma come un racconto perennemente in progress. Se si vuole, un racconto di racconti in cui si alternano, si intrecciano e si sostengono molteplici “libri”. È vero: Bill Gates è uno che ama lanciare profezie e spesso sbaglia, ma qualche volta ci prende. Chi può negare che milioni di posti di lavoro siano andati perduti e che in futuro molti altri andranno perduti a causa della robotica e dell’intelligenza artificiale? Bastano poche evidenze, in atto e soprattutto in potenza, per permettere agli storyteller di continuare a intrecciare nuove trame.[12] D’altra parte la dieta mediatica prevede dei consumatori insaziabili. Ecco perché le previsioni sul futuro lanciate dagli aedi della rivoluzione digitale non sono quasi mai di tipo scientifico. O meglio: sono doxa travestita da episteme. S’intuisce il motivo: la previsione narrativa è mediaticamente più efficace di quella scientifica perché un serio scienziato sociale è sempre molto cauto nel fare previsioni sulla società di domani e di sicuro non apre le porte al sogno, perciò non fa notizia. Mentre un tecno-visionario ha mano libera nell’anticipare il futuro, lanciare profezie, eliminare incertezze, respingere la prudenza dei tecno-realisti (coloro che valutano l’impatto della tecnologia alla prova dei fatti).[13] Trasmesse incessantemente da ogni tipo di media le previsioni narrative sul futuro hi-tech generano un effetto-realtà in grado di plasmare il presente. Non importa tanto il tipo di cambiamento prodotto dalla rivoluzione digitale quanto il suo sviluppo ideativo. E così qualsiasi guru della civiltà del silicio può permettersi il lusso di sbagliare previsioni senza che nessuno o quasi gli chieda conto: ciò che non accade oggi, accadrà sicuramente domani. Non è una questione parareligiosa. O almeno non solo. È una questione di educazione visiva. Basta andare su YouTube per vedere coi propri occhi che prima o poi i robot sostituiranno i camerieri e i giornalisti.

Mito delle origini. Dal punto di vista storico la rivoluzione digitale nasce nei centri direzionali della grande industria statunitense durante gli anni ’50 del ‘900. Dal punto di vista narrativo nasce nel garage di qualche geniale programmatore informatico. Nascono in un’autorimessa: Google, Amazon, Apple, Hewlett-Packard.[14] Almeno nel caso della Apple questa venuta al mondo è smentita. Evgeny Morozov: “Appena poteva Jobs ricordava che la Apple era nata in un garage – gli piaceva argomentare sulla “purezza del garage” e descrivere il suo sovversivo progetto Macintosh nei termini di un “garage metafisico” – ma il co-fondatore della Apple, Steve Wozniak, ha sempre sostenuto che quel famoso garage svolse un ruolo davvero marginale nella storia della costruzione del primo Mac. “Ho assemblato la maggior parte di quel computer nel mio appartamento e nel mio ufficio alla Hewlett-Packard” confidò al “Rolling Stone” nel 1996. “Non so da dove salti fuori tutta questa storia del garage… lì dentro successe veramente poco.[15]

Mito delle origini 2. La nascita di una Big Tech all’interno di un luogo dimesso come un garage alimenta i sogni e le speranze di giovani garage tinkerers intenti a creare in camerette e scantinati le loro start-up. A ben guardare sono nate in locali di fortuna anche diverse band della musica pop diventate poi celebri. Il che suggerisce la genesi spettacolare della narrazione digitale. E a guardare ancora meglio, secondo il racconto ufficiale anche Mattel, Disney, Harley-Davidson e Lotus sono nate in un garage. Dettaglio che indica quanto, sul piano simbolico e su quello ideologico (mito del self-made man), la terza rivoluzione industriale sia figlia della seconda. Maternità confermata da fattori assai concreti. Per esempio: presentato a lungo come tecnologia pulita si è poi scoperto che il digitale inquina, è energivoro e per funzionare fa uso degli stessi combustibili fossili della vecchia manifattura. Al netto delle innovazioni tecnologiche la rivoluzione digitale presenta un’altra continuità col passato decisamente interessante: l’organizzazione gerarchica dell’impresa. Rigidità che nell’aprile di quest’anno ha permesso al magnate Elon Musk di licenziare 6.500 dipendenti di Twitter su un totale di 8mila. Però sotto questo profilo una discontinuità tra la seconda e la terza rivoluzione industriale va ammessa: nella Silicon Valley i sindacati praticamente non esistono.

 Riduzionismo. La nostra immagine mentale narra un modo particolare di fare storia: il mutamento sociale passa attraverso le invenzioni tecnologiche.[16] Ma la storia delle invenzioni tecnologiche non esaurisce la comprensione del cambiamento sociale. In tema di rivoluzioni industriali l’etica protestante non fu estranea all’accumulazione del capitale necessaria alla nascente industria manifatturiera, così come lo sviluppo dell’automazione nella manifattura non è estraneo alla conflittualità operaia. Due casi di scuola che indicano la molteplicità di forze del cambiamento sociale: forze economiche, culturali, politiche, tecnologiche, demografiche. Queste forze sono soggette all’azione collettiva e in misura variabile si combinano tra loro. La regola generale, ricavabile da qualsiasi manuale per studenti di sociologia, è che nessun passaggio da un modo di produzione a un altro e, più in generale, da un modello sociale a un altro può essere compreso se non si tiene conto di tale combinazione. E tuttavia quasi mai i narratori della rivoluzione digitale si confrontano con la complessità della transizione da una rivoluzione industriale all’altra perché verrebbe meno l’enfasi narrativa. È molto più efficace raccontare la storia dell’industria moderna col mero passaggio da una generazione tecnologica all’altra. D’altra parte le storie di successo funzionano sulla base di una trama semplice costellata di episodi più o meno complicati. Ma al di là dell’intreccio narrativo ci troviamo dinanzi a una forma di riduzionismo storico-sociale che non aiuta a comprendere i cambiamenti del passato e del presente. A conquistare il grande pubblico sono le storie semplici e avvincenti.

Determinismo tecnologico. Il riduzionismo rende molto efficace l’immagine mentale che siamo esaminando. Ma se si nutrono ambizioni culturalmente egemoniche le scorciatoie del pensiero, per quanto efficaci siano, da sole non bastano. Hanno necessità di almeno due coperture: una teorica e l’altra ideologica. Il passaggio automatico da una rivoluzione industriale all’altra lascia trasparire la prima copertura: il determinismo tecnologico. Si tratta di una nota teoria che vede nel livello tecnologico raggiunto da una società la causa fondativa della sua cultura, della sua struttura e della sua storia. Concezione ben illustrata da un’immagine con cui si induce a credere che la storia si ripeta sempre nella stessa maniera e le ondate tecnologiche costituiscano di per sé un miglioramento della società. Proprio perché monocasuale il determinismo tecnologico facilita le narrazioni e sulle sue spalle siedono i cantori della rivoluzione digitale. I vantaggi sono evidenti: oscurare la natura capitalistica della transizione epocale in cui si trovano le nostre società; produrre un pubblico plaudente o rassegnato dinanzi allo spettacolo della tecnologia; affermare un modello politico-culturale di tipo tecnocratico.

Darwinismo sociale. Per sostenere i vantaggi del determinismo tecnologico ecco avanzare la copertura ideologica: il darwinismo sociale. Corrente di pensiero ottocentesca adattata al terzo millennio grazie all’abbraccio fra teoria economica neoliberista (nata nella prima metà del ‘900) e la rivoluzione digitale (seconda metà del ‘900). L’incontro fra neoliberismo e new economy ha richiesto e continua a richiedere un nuovo tipo di produttore il cui profilo può essere così tratteggiato: si adatta a una vita lavorativa fatta di incognite; lotta senza esclusione di colpi contro i colleghi-concorrenti perché le opportunità sono scarse; accetta i contratti individuali e il lavoro nero senza protestare; lo stesso orario di lavoro non ha limiti ed è soggetto a qualsiasi variazione; è disposto al cambiamento continuo, alla mobilità occupazionale (almeno dieci volte nella vita) e a non avere fissa dimora; non sa cosa siano le ferie retribuite; i diritti sindacali appartengono a un passato considerato superato; la sanità la paga di tasca propria; vive perennemente in tournée. A chi somiglia questo flessibile globetrotter? A una vecchia conoscenza: il lavoratore dello spettacolo. Un lavoratore da sempre precario, in balia del mercato, per il quale la solidarietà è uno svantaggio e la vita è la lotta per la sopravvivenza. Con l’affermazione di questa figura di produttore il passato più lontano si salda col Terzo millennio smentendo l’illusione che una rivoluzione industriale azzeri le eredità storiche. Ovviamente non così per la narrazione digitale. Secondo la quale l’era del silicio costituisce un futuro nuovo di zecca. Un futuro che si materializza col susseguirsi di innovazioni tecnologiche e che è continuamente rinviato a domani. Nel frattempo?

Miti, fiabe, spettacoli. Nel frattempo c’è da chiedersi come fa un’immagine mentale così discutibile come quella che abbiamo fin qui analizzato a non suscitare un diffuso ripensamento in grado di mettere in crisi la narrazione dominante. La risposta non è difficile da individuare: la rivoluzione digitale si iscrive nel registro dell’immaginario e può presentarsi sotto diverse forme espressive: mito, fiaba, spettacolo. In tutti i casi è un esempio da manuale di de-storicizzazione. Tuttavia mette ordine in una realtà che altrimenti richiederebbe molte spiegazioni (perché abbiamo bisogno di essere circondati da così tante macchine?) e argina la formazione della tecno-consapevolezza (perché vivere con gli occhi puntati su uno schermo?). Queste prevalenze sono generate dall’irruzione sulla scena mediatica delle tecno-novità e dalle mille storie che vengono raccontate a un pubblico che le fa proprie e le ri-racconta contribuendo ad alimentare fiabe, miti, spettacoli. Mille nuove storie vengono alla luce attraverso testi, parole, gesti, eventi, personaggi che appaiono sulla ribalta mediatica. Non necessariamente le storie devono essere confortanti. Anzi, possono seminare paure collettive come per esempio la minaccia dell’intelligenza artificiale di sostituire gli esseri umani dentro e fuori il mondo del lavoro. Un punto a sfavore dell’innovazione tecnologica? No. Sul piano narrativo l’ansia del lettore e dello spettatore non è un problema, è una risorsa chiamata suspence. Si è mai vista una fiaba, una mitologia, un film di fantascienza senza peripezie, senza prove da superare e senza che sia scorso del sangue?

 La tecnologia avanza, la società arretra. La sequenza di rivoluzioni industriali che ha dato vita a un’immagine mentale diventata senso comune passa da un mutamento sociale all’altro secondo una scansione che autorizza una lunga serie di innovazioni: tecnologiche, scientifiche, organizzative, finanziarie e così via. Una sola innovazione non è prevista: quella politica. Nel senso che non è prevista la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non è prevista l’eguaglianza sociale, non sono previsti i diritti sociali, non è prevista un’equa distribuzione della ricchezza, non è prevista la piena occupazione, non è prevista la fine della povertà, non è prevista la fratellanza, non è prevista la sacralità della vita. Dato che la negazione di tutte queste possibilità costituisce sempre più la realtà degli europei, la rivoluzione digitale sembra essere più l’esportazione nel Vecchio continente dello stile di vita statunitense che una new society. Sembra essere l’affermazione di un paradosso che tiene insieme l’avanzare della tecnologia e l’arretramento della società.

Note

[1] Sulle fortune di tale etichetta e le sue numerose declinazioni cfr. G. Baldi, L’ultima ideologia. Breve storia sella rivoluzione digitale, Bari-Roma, Laterza, 2022.

[2] Cfr., É. Laurent, Mitologie economiche, Neri Pozza, Vicenza, 2017. M. Mazzucato, Lo Stato

imprenditore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Bari-Roma, 2014.

[3] Sulla nascita, gli sviluppi, l’uso e soprattutto l’abuso di questa tecnica narrativa cfr., C, Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma, 2008.

[4] Fonte: Wikipedia. Voce: Industria 4.0 consultata il 10 dicembre 2023.

[5] Avviso per i lettori: questa posizione è da tempo largamente minoritaria tra i sociologi della comunicazione. Ci pare un buon segno.

[6] Per gli amanti delle novità ad ogni costo una brutta notizia: per quanto frammentata la cultura di massa esiste ancora. Perlomeno nel rapporto del tutto asimmetrico che separa i detentori dei mezzi di comunicazione dai loro fruitori.

[7] Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Breque, M., De Nul, L., Petridis, A., Industria 5.0 – Verso un’industria europea sostenibile, incentrata sull’uomo e resiliente, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2021, https://data.europa.eu/doi/10.2777/308407

[8] Cfr. R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo Education – Maggioli Editore, Sant’Arcangelo

di Romagna (RN), 2014.

[9] L’interesse della comunicazione commerciale per il domani è di vecchia data e si estende ben oltre il comparto strettamente hi-tech. Per restare in Italia: ENEL – Accendiamo il presente per illuminare il futuro; Ferrovie dello Stato – Il futuro è una realtà tangibile; Calzedonia – Il futuro è rosa.

[10] Volantino per l’Introduzione all’era dell’automazione della statunitense National Association of Manufactures e citato da F. Pollock in, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Einaudi, Torino, 1970, pagg. 24-25.

[11] B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano, 1997, (Ed. aggiornata), pag. 356. Grassetto nostro. Il domani di Gates sarebbe stato un “capitalismo senza attriti”.

[12] Nella sua lettera annuale del 2014 Bill Gates spiegò che entro il 2035 non sarebbero più esistite nazioni povere, mentre di recente ha assicurato che ChatGPT cambierà il mondo.

[13] Osservare sul piano della realtà gli effetti della rivoluzione digitale è l’operazione che conduce Vanni Codeluppi in Mondo digitale, (Laterza, Bari-Roma, 2022) e le conclusioni a cui arriva non sono confortanti per i tecno-ottimisti. In proposito ci sia consentito rinviare anche al nostro, Transizioni digitali. Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell’era hi-tech, Arcadia Edizioni, Roma, 2019.

[14] La leggenda delle aziende appartenenti alla old e new economy nate in un garage è assai diffusa. A titolo di esempio si veda: A. Delli Compagni, Otto grandi aziende nate in un garage, (www.wired.it, 24 ottobre 2016); G. Nadali, I business multi milionari nati in un garage, (www.fortuneita.com, 28 agosto 2018).

[15] E. Morozov, Contro Steve Jobs. La filosofia dell’uomo di marketing più abile del XXI secolo,

Codice edizioni, Torino, 2012, pag. 57.

[16] Per una sintesi delle prospettive storiche alternative all’ortodossia del mutamento fondato sulla tecnologia cfr., S. Agnoletto, Rivoluzioni industriali e grande divergenza (tra XVIII e XIX secolo): miti e paradigmi, in, Into the black box, (a cura di), Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale, Meltemi, Milano, 2021.

Patrizio Paolinelli

La critica sociologica, LVIII, 229, Primavera 2024

Fabrizio Serra Editore

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